Cose di mafia
Si lotta di più se ne parlo o se non ne parlo? Magari vengo e me ne sto in disparte.
N.d.A. - C’è un po’ di aneddotica non richiesta ma funzionale nel primo paragrafo. Chi desideri saltarla vada direttamente al terzo capoverso.
Ci sono alcune persone nel territorio in cui sono nato e vivo che, per quei quattro podcast o video youtube che registro in cui non dico nulla ma lo faccio ricercando le parole, credono che io ne capisca di libri o che sia una persona genericamente acculturata. Niente di più sbagliato, è chiaro, basterebbe conoscermi, ma viviamo in un paese in cui basta mettere un vestito di lino stazzonato e leggere Proust per avere accesso istantaneo ai salotti in cui si discetta di lanzichenecchi, seduti in un cerchio rituale di onanismo collettivo1. Detto ciò, qualche settimana fa un’associazione del territorio (una di quelle serie) mi contatta per “moderare” un incontro durante una bella manifestazione che si tiene con cadenza annuale nel paese in cui risiedo. Lo faccio già da qualche anno ma mi ero ripromesso, questa volta, che non avrei accettato; perchè moderare, semplicemente, non mi piace più e giunto all’età di Cristo nostro Signore preferisco dedicarmi ad altre cose. Stare in pubblico, poi, non è più una delle mie priorità e, anzi, ultimamente ricerco più spesso (non trovandolo) il silenzio o qualche passatempo. Ricostruisco di seguito la telefonata tra me e la presidentessa dell’associazione in questione. Premessa: avevo coscientemente ghostato la prima chiamata ricevuta poiché ho sempre avuto problemi a dire no e volevo prendere del tempo per prepararmi2; faccio parte di quelli che dicono “Ti faccio sapere!” e poi non ti fanno sapere più nulla.
“Pronto!”
“Ciao Giorgio. Sai per quale motivo ti chiamo, vero?”
“No [in realtà me lo aspettavo], perché?”
”Beh, ci sarebbe un libro da presentare per l’evento e abbiamo subito tutti pensato a te. Dunque…”
”Ah, no vabbé guarda ma io…”
”Il libro è La ragazza che sognava di sconfiggere la mafia di Annamaria Frustaci, la magistrata antimafia che lavora con Gratteri, la conosci?”
”Ah…”
Ho accettato, subito; perché, nell’esatto momento in cui mi ha accenato il titolo del romanzo che avrei dovuto presentare, ho pensato: “sono fottuto”. Una scorrettezza clamorosa. Non avrei avuto problemi a rifiutare l’invito, se si fosse trattato dell’ennesimo saggio simil-antropologico-religioso-filosofico (dal sapore franco-esistenzialista, lacaniano per intenderci, che tanto piace ai cinquantenni sospirosi e a quelli dei salottini di cui sopra) sulle tradizioni e i costumi della Calabria o del romanzetto autobiografico di dubbio gusto letterario3. No, questa volta non c’è stato bisogno di mentire. Non ce n’è stato bisogno perché mi era stato proposto un macrotema, quello dell’associazione mafiosa, che avrebbe potuto accendere la mia voglia di mettere mano alla cosa. Così, alla fine, con piacere e onorato, ho detto sì.
Quello della mafia è un tema complicato da trattare in terra di mafia. Non perché se parli di mafia dopo mezz’ora te la ritrovi a bussare alla porta di casa. Questo non succede, il più delle volte. Con buona pace di eroismi da giornalisti di bassissima statura professionale e morale.
Succede quando tocchi o rendi pubblici i loro interessi ma sono pochi quelli che hanno la capacità, la voglia, l’occasione o il coraggio di farlo. È un tema complicato perché c’è una strana ritrosìa, quasi una vergogna, nel discuterne e perché i cosiddetti intellettuali nostrani (titolo, vale per tutti, autoconferito), che camminano con lo specchio davanti, hanno rinunciato a parlare di cose che non suscitino l’immediata ammirazione delle quattro prefiche che li seguono. Antefatto: ci sono stati anni in cui non si parlava d’altro, in cui non si riuscivano a contare convegni, seminari, incontri, dibattiti pubblici sulla ‘ndrangheta. Alcuni di questi li ricordo con piacere perché, quando ero più giovane, hanno contribuito a costruire la mia coscienza civile sull’argomento. Poi è arrivato il rigetto: qualcuno, soprattutto stimatissimi intellettuali del luogo (vedi sopra), hanno cominciato a gettare discredito sulla cultura dell’antimafia (“segue cena”), a dir loro poco costruttiva e poco utile in un contesto che aveva e ha bisogno di azione, non di parole. Ed è vero che molti, su quella cultura, ci hanno costruito carriere politiche che in termini pratici hanno portato a ben poco.
Pian piano, comunque, il pubblico si è stancato e il calabrese ha iniziato a indispettirsi e insospettirsi, come se tutti quei discorsi fossero rivolti contro di lui, proprio lui, che invece non aveva nulla a che fare con determinate famiglie, luoghi, situazioni e che come naturale atteggiamento ha quello della difensiva. Perché investire tutta la regione e i suoi cittadini di un’etichetta, un marchio? E quindi stop all’"antimafia segue cena” e via libera alla narrazione mistica del territorio e all’esaltazione delle bellezze naturali, enogastronomiche, pseudo-storiche, mitologiche, urbanistiche. Sono stati fatti anche libri sui templari e il sacro Graal in Calabria, per capire la decadenza. Ci mancano solo gli ufo, forse.
L’occasione della presentazione del libro del procuratore Frustaci4 (sostituto procuratore della Dda di Catanzaro e membro del pool antimafia di Nicola Gratteri) capita a puntino. Più che all’opera in sé, che ha un importante valore intrinseco5, mi riferisco alla possibilità di riaprire un dibattito, una discussione su un tema (che, come dicevo, è un macrotema, perché ne include tanti altri: scuola, cultura, scelta, gioventù, lavoro, economia) che ormai è confinato soltanto alle aule di tribunale, perché noi non ne vogliamo più parlare. Farlo insieme a una professionista che dedica la sua vita alla lotta contro il sistema mafioso, è un onore e un privilegio.
Farlo in piena estate, in uno dei tanti borghi arroccati sulle colline calabresi, invece mi dà un senso di gioia impagabile. Perché impagabile è la soddisfazione di parlare al turista venuto a sciacquare le sue lanzichenecche terga nel non proprio limpidissimo mar Ionio e all’indigeno arrabbiato di come i nostri territori siano piagati e plagiati, da qualche centinaio di anni, da una società alternativa e parassita che, forse, proprio perché non se ne parla più, è riuscita a imporre la sua di narrazione: quella del silenzio.
I miei due anni da docente (così dicono) mi hanno persuaso che forse la scuola potrebbe avere un ruolo più decisivo e riprendere (o morire provandoci) il suo posto tra le varie agenzie educative del nostro paese. Sperando di superare Tik-Tok o, almeno, la Mediaset.
Cfr. A. Elkann, Sul treno per Foggia con i giovani “lanzichenecchi”, La Repubblica del 23 luglio 2023, disponibile qui
Ciò dimostra, se ce ne fosse bisogno, che in questo c’è anche una buona dose di narcisimo. La paura di dire no deriva, forse, dalla paura di diventare del tutto invisibile. Che a furia di dire no si scompaia, alla fin dei conti.
Sabato 29 luglio 2023 ore 19:30, per il festival Sonore Alchimie, a Davoli (CZ) - centro storico
Non è scontato. Non capita spesso, a chi presenta libri, di presentarne di ben scritti.