Il 24 del mese di gennaio, a.D. 2022, giungerà alla sua ineluttabile conclusione un ciclo della mia vita. Il 4 piovoso dell’anno 2291, Silvio Berlusconi, il presidente del consiglio più amato dagli italiani, immenso statista, diverrà (o forse no, stando alle ultime) Presidente della Repubblica Italiana, costruita sul sangue partigiano. E sarà l’inizio di qualcosa di nuovo, un nuovo ordine mondiale che spaccherà la terra in due, che farà dei mari pozzanghere e dei monti trampolini. Dei fiumi, scivoli; dei vulcani, barbecue. Un New World Order che travalicherà i confini spazio temporali, aprendo paradossi quantistici in ogni angolo, in ogni pixel dell’universo conosciuto e non. Sarà l’inizio e la fine di qualcosa di meraviglioso. L’ecatombe finale della mia gioventù.
Quel giorno, riprenderò in mano un vecchio CD dei Gemelli Diversi, naturalmente piratato, e lo guarderò come si guarda un enigma inaccessibile, una serratura della quale non si conosce la chiave. Lo farò perché sarà tutto finito o, quantomeno, tutto quello che è stato avrà la sua degna conclusione, il suo ultimo, spettacolare, giro di giostra. Ridarò la vita, liberandola dalla polvere, alla mia vetusta Playstation, anch’essa col chip modificato. E, sperando che ancora funzioni, rigiocherò Metal Gear Solid, per sentirmi un po’ meno solo, un po’ più Snake, ma quello del Nokia 3310. Vorrei essere come un Nokia, indistruttibile, senza alcuna possibilità di essere ferito. Creare di nuovo suonerie chiedendone i codici alla voce registrata del 159.
Non vedo l’ora, dunque, che sia finalmente quel giorno, il giorno in cui i miei sogni di bambino si riattiveranno e verranno riscattati, poi, la vigilia di Capodanno, quando, chissà, il novello presidente della repubblica, avvicinandosi ai microfoni farà riecheggiare nel salotto della mia mansarda la sua voce, meno vigorosa ma comunque mistica. Il simbolo ci parla in enigma:
Il nano malefico, Moni, LUI, il Dottore, Sua Emittenza, il Cavaliere, Il Cavaliere Mascarato, Il Presidente, Il Presidentissimo, L’Unto, Kim il Silvio, Testa d’Asfalto, Papi, Il Caimano, Il Cainano, Burlesquoni, Cesare, il Bandana, Il Bandanano. Ne manca qualcuno ma il simbolo, per sua natura, rimanda a tutti, senza bisogno di didascalie o sottotitoli.
È il sottotesto di un percorso intero, di un pezzo consistente di storia della repubblica italiana, che poi è la mia storia, il mondo in cui sono cresciuto, in cui molti di noi sono cresciuti. Il significante massimo, il significante assoluto, esclusivo. La forma senza contenuto, che esorcizza il contenuto. È in questo testo che abbiamo maturato il nostro distacco, il contenuto della nostra vita. Un contenuto che si è andato definendo in una opposizione: chi aspirava a ripercorrere le orme e le strade tracciate dal miracolo italiano, dal self-made man di casa nostra, idolo delle nostre nonne per quel sorriso così smagliante e genuino; e chi invece si costruiva unicamente per contrasto.
Sarà successo a molti di avvertire un leggero imbarazzo per le uscite di B., anche a chi militasse dalla sua stessa parte. Ma si trattava, sempre, di un imbarazzo che si scioglieva in un sorriso; nella consapevolezza che poi, in fin dei conti, era quell’imbarazzo stesso a non avere contenuto. Perché del contenuto non c’era bisogno. Tutto era molto meno serio, molto meno importante, di quanto ci apparisse a prima vista. Il mondo non era qualcosa con cui fare i conti, da penetrare in profondità, ma una superficie piatta al di sopra della quale tutto ciò che andava fatto era provare a galleggiarci. Il tempo non era nulla se la tua immagine riusciva, per qualche miracolo, a rimanere tale, a non cambiare. Non cambiando la tua forma, non cambiava nient’altro, perché era l’unica cosa che avevi davvero la forma, l’unica cosa che davvero contava.
Immaginate che tutto ciò accada davvero. Immaginate che non si frappongano ostacoli tra la realtà e il sogno. Siamo un paese che non cancella nessuno, che non ha l’ingenuità della cancel culture, che non ama il naive. Che senso ha abbattere nostro padre, se quel padre ce l’abbiamo nel cuore, se l’abbiamo impresso a caldo sulle nostre anime. Dovremmo abbattere noi stessi, dovremmo toglierci un pezzo di noi e gettarlo via. Non saremmo più gli stessi, non saremmo quello che siamo. Il rimosso ci agisce in modi del tutto inaspettati e insondabili.
Quel mito dell’immagine a tutti i costi ha aperto la strada al mondo che viviamo, ha precorso i tempi e gli spazi che stiamo surfando. Siamo postumi in questo mondo, tutto questo l’abbiamo già vissuto. È un dejavù lungo trent’anni. Ci meravigliamo delle immagini, della loro onnipervasività ma, in questo mare, siamo navigatori esperti. Abbiamo già sperimentato tutto e tutto quello che abbiamo già sperimentato l’ha costruito lui, B. L’incessantismo, il fabbricarci attraverso il lavoro, il culto non del corpo ma della vitalità, della pienezza spaziale, della genuinità e della genuina ignoranza. La convinzione che tutto quanto potesse realizzarsi nella vita grazie alla giusta quantità di soldi.
Nonostante il mio ergermi in opposizione a quel modello, mi rendevo conto che, comunque, riusciva a fare breccia nella mia psiche, nel mio modo di guardare le cose. Ricordo il corpo smunto di D’Alema, la nemesi di B., quel corpo così poco prevaricante, così poco maschio, così poco vitale. Il paragone non reggeva. E poi si verificava un capovolgimento interessante. La ricchezza dell’allora segretario DS mi dava fastidio. Non capivo come, chi cercasse di arginare lo strapotere iconografico ed economico del mostro, potesse surfare (anche lui) le acque agitate di quel mondo su uno yacht, simbolo estremo della ricchezza tracotante. Lui, il Papi, glielo rinfacciava e io credevo che avesse ragione, almeno in quello. Perché il corpo e il compito storico di D’Alema non gli permettevano quella vanità. Doveva essere tutt’altro, l’ultimo argine al nuovo ordine mondiale. B., invece, poteva permettersi qualsiasi cosa, perché non covava dentro di lui alcuna contraddizione. Era tutto perfettamente in linea. Il suo viso non era pallido ma abbronzato mentre, bandana bianca in testa, da Presidente del Consiglio accoglieva Tony Blair e consorte nella sua villa in Sardegna.
Quando B. dall’alto del suo pulpito attaccava i contestatori definendoli “poveri comunisti”, non stava parlando della loro condizione economica ma esistenziale. Erano poveri perché privi di gioia, di onore, di dignità, di vita. Tutte cose che lui, invece, possedeva in grado massimo. Se pensate che, in quegli anni, il divino controllava, come controlla tutt’ora, un’emittente privata di grande rilievo, che gareggia e spesso surclassa la concorrente tivù di stato, i cui conduttori e personaggi (influencer anzitempo) hanno plasmato il pensiero e l’opinione di milioni e milioni di telespettatori, di almeno due generazioni intere, potete ben capire quanto quel tipo di potere che in quel modo esercitava, al di fuori delle stanze ufficiale del potere, fosse importante. Importante perché ha progettato, scientemente, e portato alla luce un ideale collettivo, una precisa e architettata immagine del mondo che era il germe della civiltà dei social media che viviamo nella contemporaneità, un germe antico ma non qualitativamente inferiore, soltanto meglio nascosto tra le fitte trame del potere e della costruzione di consenso.
Per questo, il 24 gennaio, metteremo per l’ultima volta i nostri visori ed entreremo in una nuova realtà virtuale. Ci libereremo forse per sempre di nostro padre, noi che incarniamo novelli Telemaco. Forse lo uccideremo, lo ridurremo a fantasma. Ma la sua ombra e la sua voce, i suoi segni, resteranno per sempre ancorati alle nostre anime e li ritroveremo in ogni angolo del nostro mondo per molto tempo a venire. L’ombra di un padre che ci ha svezzati, che odiamo ma che mai e poi mai potremo cancellare, dimenticare.
*testo della puntata del 19/01/2022 del podcast Filosofia per il Nuovo Mondo (Spotify, iTunes, Spreaker, Youtube)
Secondo il calendario rivoluzionario francese